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INTERVISTA A GIULIA DI BATTISTA FINALISTA A CINEMA DONNA

Cento metri quadri in concorso nella sezione a cura di Manuela Tempesta

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Giulia Di Battista ci parla del suo corto in concorso nella speciale sezione di corti in cortile.  

 

 

   

Giulia Di Battista è nata nelle Marche a San Benedetto del Tronto. Con il suo primo cortometraggio, un documentario dal titolo “Rèsce La Lune”, è entrata al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, 2016‐2018, corso di regia. Con “Rèsce La Lune” ha anche partecipato a più di 30 festival in tutto il mondo, vincendo una decina di premi tra i quali il miglior cortometraggio all’ICFF di Toronto (2016), “Most Moving Film” allo Sczcecin European Film Festival (2016), miglior cortometraggio e migliore sceneggiatura all’Aqua Film Festival (2017), miglior cortometraggio al Fluvione Corto Festival (2017) e miglior documentario all’International Tour Film Festival (2018). Con il soggetto “La Barbaresca” ha vinto una menzione speciale al premio Valeria Solesin. Con il suo cortometraggio Cento Metri Quadri nel 2019 partecipa alla sezione Scuole Senza Frontiere del Locarno Film Festival e ad altri festival come il RIFF e Corto Dorico, vince numerosi premi. Sempre nel 2019 con “Domani all’alba”, cortometraggio di diploma, vince il Fano Film Festival, il premio FEDIC, il festival Storia in corto e partecipa al prestigioso festival Energa CamerImage. Sempre al CamerImage viene selezionata al Talent Demo Program, ricevendo la possibilità di sviluppare un progetto con esperti del cinema quali Jordan Roberts, Teresa Medina, Gabriela Rodriguez.

Perché hai scelto di raccontare la storia di “100 metri quadri”?
Devo essere sincera, non c’è stato, almeno non consciamente, un punto di partenza definito per la storia di Cento Metri Quadri. Ero partita da una domanda, o meglio, da uno spunto: indagare cosa può succedere quando due solitudini condividono uno spazio piccolo. Mi piace indagare l’animo umano senza sconti e senza giudizio, raccontare frammenti, spaccati di vita, dettagli e cose apparentemente piccole, dalle quali si può ricavare l’infinitamente grande. Mia nonna, negli ultimi anni, della sua vita fu seguita da una badante, e mi sembrava una situazione ideale anche perchè molto comune. Non deve essere facile mettere la propria autonomia, il proprio corpo, in mano ad un estraneo. Come non deve essere affatto facile prendersi cura di una persona che, proprio perché vede la sua autonomia annullata, può essere respingente. Per di più in un posto lontano da casa, lontano dagli affetti e, soprattutto, se le tue aspirazioni di vita erano tutt’altre. E poi avevo un’immagine in testa: quella di una luce che si accende e si spegne incessantemente, senza ricevere risposta. Da lì, ho iniziato a collegare le cose e a pensare a possibili dinamiche che potessero esasperare il senso di costrizione che le due donne vivono… Ed è nato Cento Metri Quadri. Curioso è stato il fatto che, proprio l’anno scorso, successivamente, quindi, alla realizzazione del corto, io abbia ritrovato dei diari di quando ero bambina, avrò avuto tra gli 8 e i 9 anni. Rileggendoli ho ritrovato un episodio risalente proprio al periodo in cui mia nonna era seguita dalla sua badante. Avevo sorpreso quella donna piangere di nascosto. Lei non ha mai saputo che in quel momento la stavo osservando e non ne abbiamo mai parlato, ma quell’immagine doveva avermi colpito tanto da doverne scrivere. Eppure, era un episodio che avevo completamente dimenticato. Il leggerlo lì mi ha fatto capire quanto le storie che raccontiamo, anche quando, apparentemente, non sembra, ci appartengono totalmente.

Come hai scelto la tua protagonista e che tipo di lavoro avete svolto insieme?
La ricerca dell’attrice che potesse interpretare il personaggio di Agnese era delicata. Agnese è una donna anziana bloccata a letto da una paralisi su tutta una metà del corpo, e che, per di più, non riesce più a parlare, danni probabilmente causati da un ictus. Avevo bisogno, quindi, di qualcuna il cui volto parlasse da solo ma, che allo stesso tempo, fosse in grado di rendere credibile la malattia tramite il lavoro sul corpo, di darmi, tramite pochi suoni, e gli occhi, quello che non poteva dare tramite la parola. Avevo già sentito parlare di Elena Cotta per la Coppa Volpi che aveva ricevuto nel 2013, e quando l’ho vista nel film di Emma Dante che le ha fatto vincere il premio, non ho avuto bisogno di cercare oltre: era perfetta, era esattamente come l’avevo immaginata. Ricordo di aver iniziato a fare gli storyboard raffigurando lei prima ancora di averle proposto il ruolo, e di sapere se lo avrebbe accettato, perché nella mia testa sapevo che, solo lei poteva, e che avrei lottato per averla. Per fortuna, non c’è stato bisogno di molte lotte, il ruolo le piacque e ci incontrammo, e devo dire che sono rimasta più che colpita da lei. Elena è una grande donna e una grande persona, oltre che una grande attrice. Mi ha dato tutto e anche di più. Non ha voluto sconti durante le riprese, perfino nella scena in cui Agnese cade dal letto, dove avevo previsto di falsare la caduta, ha preteso di farla realmente (ovviamente mettendo noi in sicurezza), per amore del lavoro che stava facendo. Lavorare con lei è stato meraviglioso, nonostante io fossi ancora una studentessa quando abbiamo realizzato Cento Metri Quadri e lei una attrice con una carriera alle spalle enorme. E’ stata generosa. A parte che il classico lavoro di background sul personaggio e le varie prove su come Agnese potesse muoversi -per quel poco che poteva- sul set, prima di girare, facevamo delle prove in cui le davo ritmo ed indicazioni con le intenzioni di ogni sguardo. Era importantissimo far passare tutte le sfumature di emozioni che il personaggio tocca in maniera naturale, e poi si girava. Elena si lasciava guidare, si è donata ed affidata, ed io mi affidavo a lei. È stata incredibile e le devo molto.Si è creato un bel legame tra noi e ancora ci sentiamo, ha il mio profondo affetto e la mia più grande stima. Un pensiero speciale le va ora che ha perso il suo compagno di una vita, Carlo Alighiero, che ho avuto occasione di conoscere e che era un artista splendido, oltre che una gran bella persona.

Come hai scelto Joanna, ovvero l’attrice che interpreta la bandante?
Per Joanna, ho fatto dei veri e propri casting. Cercavo attrici che fossero quanto meno originarie dell’Est Europa, non avevo ancora individuato la nazionalità precisa, ma il russo era una forte opzione, mi attrae molto il suono di quella lingua e, soprattutto, credevo che, essendo i russi un popolo tipicamente considerato forte ed orgoglioso, queste sfumature avrebbero aggiunto un sentimento maggiore nel momento del crollo emotivo del personaggio. Ho trovato Alla Krasovitzkaya e, dopo il primo provino fatto insieme, l’ho subito confermata. Con lei, ho avuto più modo di spendere tempo insieme prima delle riprese, ed anche qui sapevo di aver fatto la scelta giusta. Anche Alla è un’attrice generosa e molto umile, credo abbia un talento di cui forse lei stessa non è pienamente consapevole. Mi ha aiutato anche a cercare le espressioni giuste per il suo personaggio, quando nell’unica parte, davvero parlata, Joanna ha una telefonata con suo figlio Ivan che la sconvolge. È stato molto interessante per me riportare l’estraneità che c’è tra il personaggio di Agnese ed il personaggio di Joanna sul set. Ho lavorato separatamente con le attrici e le ho fatte incontrare solo il giorno delle riprese e credo sia stato un esperimento che ha dato i suoi frutti. I due personaggi dovevano essere come estranei l’una all’altra, cosa che Elena ed Alla erano davvero. Credo questo abbia aggiunto autenticità alla loro performance. Con Alla poi è stato divertentissimo lavorare, anche lei si è completamente fidata di me, tanto che per la scena del crollo emotivo di Joanna, ho adottato un approccio poco ortodosso. Sapendo che aveva bisogno di essere caricata e non sentendosi cosa viene detto al suo personaggio nella telefonata, l’ho presa in disparte e, senza avvisarla, della cosa ho iniziato a rivolgermi a lei nel modo in cui le avrebbe parlato Ivan, anche ricorrendo a termini piuttosto forti. Non solo Alla ha capito immediatamente cosa stavo facendo, ma è stata lei stessa a dirmi di continuare e spingermi anche oltre. Per me è stato un momento bellissimo. Sentivo una grande sintonia tra noi e, al contempo, il suo crescente disagio, mano a mano che entrava nel personaggio, ed anche qui credo che la sua performance sia molto intensa.

 
 

Tecnicamente, quali scelte stilistiche hai fatto?
Sapevo di voler partire da due cardini: una costrizione, sempre più angosciante, e una profonda, desolante, incomunicabilità. Volevo, però, mantenere un linguaggio semplice e per questo, a mio avviso, tagliente. Poche inquadrature, quelle necessarie, per restare sempre con le mie attrici, ma non per questo lasciate al caso. Vedevo le due donne del mio racconto inquadrate, quadrate, perché ferme nelle loro posizioni, nei loro problemi, nel loro punto di vista sul presente. Da qui, la prima scelta, quella del formato 1:1, è stata naturale. Proprio perché, in questo caso, avevo deciso di basare sul quadrato il mio linguaggio (dunque su qualcosa che non lasciasse apertura e fosse sempre costretto), ho cercato di restituire la stessa cosa ai punti macchina e, soprattutto, alle linee interne delle inquadrature. I miei personaggi erano le linee di quel quadrato. Nella mia testa, al personaggio di Agnese, affibbiavo l’orizzontalità perché costretta a letto, a Joanna la verticalità di pareti, a lei strette intorno, e da qui ho costruito le inquadrature. Per esasperare questa divisione tra loro, ho deciso di restare su Agnese per tutte le prime inquadrature, e di svelare Joanna solo al momento dello sputo.
La fissità era un altro elemento che mi aiutava a creare l’angoscia, salvo poi dare movimento in punti precisi, come quella breve panoramica al tentativo di Agnese di attirare attenzione con i suoni quando c’è bisogno di aiuto e, soprattutto, il carrello sul finale che segue lo sforzo di Agnese nel trascinarsi a terra e raggiungere Joanna. La scelta di aprire, invece, il formato sull’ultimissima inquadratura, è dovuta al voler ricollocare, nello spazio, quello che stava avvenendo: è solo un appartamento all’interno di palazzine, la richiesta di aiuto di Agnese diventa ancora più drammatica perché si perde nel buio della notte e non sappiamo se verrà, o meno, notata. Abbiamo lavorato con la mia squadra su tutti i vari aspetti che stratificavano la storia; la stanza di Agnese, per esempio, è completamente scenografata, perfino il colore delle pareti è stata una decisione, e qui devo dire che Myriam Sansone, la mia scenografa, ha fatto un bellissimo lavoro, per non parlare poi della fotografia di Mirko Ciabatti. Anche il lavoro sul montaggio del suono, fatto con Silvia Orengo, è stato interessante, abbiamo cercato di rendere presente il mondo fuori, completamente assente, se non nell’ultimissima inquadratura, tramite una costruzione sonora che si basasse non solo sui suoni esterni all’edificio, ma anche sui suoni provenienti dagli appartamenti circostanti, sempre per acuire il senso di solitudine che incombe sui personaggi.

Quale messaggio vorresti far arrivare al pubblico attraverso la tua opera?
Non so se si può parlare di un vero e proprio messaggio. Più che un messaggio, mi interessa lanciare delle domande, a cui ognuno se vuole e può darà risposta. Mi interessa osservare e riportare dinamiche umane. In questo specifico caso, un interrogativo che mi ponevo, spesso, mentre lavoravo al progetto, era: questo è quello che sta succedendo in questa casa, in questi cento metri quadri. Chissà cosa succede negli altri. E penso che chiedersi questo, inevitabilmente, porti a pensare a quanto, ogni realtà, sia soggettiva, quanto e cosa, ogni persona nascosta ai nostri occhi dalle tende di una finestra, possa stare affrontando. Questo pensiero, per lo meno in me, crea tenerezza ed empatia.

Il cortometraggio è in concorso nella sezione Cinema Donna curata da Manuela Tempesta nell’ edizione 2021 del festival Corti in Cortile.

   

 

 

cortiincortile.it

 

 

 

 

 
 
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