CINEMA INDIPENDENTE

Naftalina, Opera prima di Ricky Caruso

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L’ efferato omicidio di una giovane donna, per mano di un serial killer che usa coltelli da macellaio. Una ragazza segregata in una stanza umida e cupa, immersa nei suoi stessi escrementi. Un uomo catatonico prigioniero in un letto di ospedale, vittima delle premure nevrotiche di tre infermiere psicopatiche. Poi, il risveglio dall’incubo e il ritorno alla realtà, che si mostra persino più atroce dell’incubo stesso. Svelando le ragioni che stanno dietro all’orrore appena mostrato, scatenatosi come inevitabile conseguenza dei soprusi inferti da una madre disturbata nei confronti dei suoi stessi figli, alla presenza di un marito/padre paralizzato e con il volto di mostro.
Si snoda da qui la non-trama di Naftalina, opera prima di Ricky Caruso che affonda le radici in un sottogenere horror-erotico anni Settanta di cui ripropone le atmosfere e le ambientazioni, accentuate da una lieve saturazione dell’immagine che gioca con musiche e colori acidi, scanditi dalle dissolvenze in nero nel poco montaggio che alterna vari piani sequenza. Un sottogenere che si ispira dichiaratamente ai film di Joe D’Amato (nome d’arte di Aristide Massacesi), regista italiano che negli anni Settanta diede inizio ad un filone apocrifo di pellicole ispirate ad Emmanuelle di Just Jaeckin, e che viene ripescato dall’esordiente Ricky Caruso anche affidando il ruolo della madre diabolica alla svizzera Monica Zanchi, già protagonista di film come Spell dolce mattatoio di Alberto Cavallone e Emanuelle e gli ultimi cannibali dello stesso Joe D’Amato. Titoli che fanno ripensare a Henry pioggia di sangue di John McNaughton contro cui si scatena Nanni Moretti in Caro diario con un momento di memorabile ironia.
Se questo è il panorama cinematografico dal quale Naftalina trae la sua ispirazione, ne è presto spiegato il pesante e disturbante bagaglio di squallore, feticismo, brutture e perversioni che il film di Caruso si porta dietro, gravandone un pubblico che all’anteprima nazionale ha cominciato a lasciare la sala dopo poco più di metà pellicola. Non perchè ignorante o incapace di capire, ma perchè al contrario in grado dare il giusto valore al cinema e al proprio tempo. E se a volte l’alibi della sperimentazione, dell’omaggio o della provacazione invita all’indulgenza, qui resta la stessa sensazione che si ha di fronte a certi indumenti che, un tempo, hanno avuto inspiegabile fortuna e che, a distanza di anni, sarebbe meglio lasciare chiusi in un cassetto sommersi da un mucchio di naftalina.

 
 
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